domingo, 15 de setembro de 2013

Arthur Schopenhauer

La vita

Arthur Schopenhauer è nato nel 1788 a Danzica, nella Prussia, oggi attuale Polonia. (È morto nel 1860).

Figlio di un ricco commerciante, Henry Floris Schopenhauer, che era uno spirito comopolita e voleva che il figlio ne seguisse la carriera. La mare era Johanna Schopenhauer, scrittrice e traduttrice. La sorella, secondogenita, Adele era brutta e decise di seguire la carriera della madre.

Johanna non passava molto tempo coi figli, e Arthur sentiva la sua mancanza. Lui non era vicino al padre perché esso aveva delle ispirazioni di carriera contrarie alle sue. Johanna, inoltre, non corrispondeva all'amore apassionato del marito 20 anni più vecchio di lei, era fredda e lontana. Henry, ad un punto, si uccise, dopo anni di mancato affetto dalla moglie, ed essa, alla sua volta fondò poco tempo dopo il suo circolo letterario, a cui invitò gli intellettuali dell'epoca  a cui partecipava Goethe. Tra l'altro, anche Adele ne faceva parte, perché a livello inconscio sapeva di essere inferiore al fratello.

Schopenhauer, anche con le difficoltà vissute a casa non impazzì, e decise di andare all'università a Berlino. Divenne per molto tempo il maggiore esponente di filosofia orientale in Europa. Siccome studiava il budismo e l'induismo era chiamato atma ("anima").

Disprezzava Hegel, che faceva lezione nella stessa università, al punto di fissare le ore per le sue lezioni nella stessa ora di quelle del "nemico". Disprezzava anche l'insegnamento, in una ripresa di Socrate "conosci te stesso", famosa frasi incontrata sul tempio di Apollo a Delfi. 

Nel 1830 scappa da Berlino e va a Francoforte sul Reno dove studia il magnetismo, una delle prime forme di ipnosi usate nell'800, in cui si utilizzavano magneti per fare la persona entrare in catarsi, in un transi influenzato da quanto le veniva detto. 

La filosofia

Il mondo della rappresentazione come Velo di Maya

Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé (noumeno). Però la distinzione ha poco in comune con quella di Kant, per il quale il fenomeno è l'unica realtà accessibile e raggiungibile dalle mente umana, e il noumeno è un concetto limite. Per Schopenhauer, il fenomeno è illusione, sogno, inganno, un concetto che s'identifica con un'antica sapienza indiana, il "Velo di Maya". Il noumeno è la realtà dietro la realtà, quello che c'è dietro il fenomeno, dietro il velo.

Maya significa inganno, è un velo che avvolge gli occhi degli uomini e fa vedere un mondo che non si può dire se sia o no vero. È come il riflesso del sole sulla sabbia, che da lontano si confonde con l'acqua.

Questa atmosfera orientalistico-metafisica della filosofia di Schppenhauer è diversa da quella gnoseologico-scientifica ("dialogo sulla conoscenza", cioè, un approccio scientifico attraverso il criticismo della conoscenza, infatti Kant cerca di scoprire il limite, quello che è alla basi dell'esistenza, del logos, dell gnosi) di Kant. Per Kant il fenomeno è l'oggetto della rappresentazione e esiste solo fuori della coscienza, ma per Schopenhauer il fenomeno è una rappresentazione che esiste solo all'interno della coscienza, tant'è che per lui "il mondo è la mia rappresentazione".

La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Uno non può esistere senza l'altro e i due esistono sono all'interno della rappresentazione. Quindi, non ci può essere soggetto senza oggetto e vice-versa.

Per Schopenhauer la nostra mente è costituita da forme a priori, la cui scoperta lui attribuisce interamente a Kant. Però, per Schopenhauer esistono solo 3 forme a priori: spazio, tempo e causalità. Quest'ultima, la causalità è l'unica categoria che esiste, nonostante Kant ne avesse elencato 12, perché tutto è riconducibile ad essa. La realtà dell'oggetto si compie nella sua azione causale su altri oggetti. Infatti, una cosa solo esiste se compie un'azione causale su altre cose. Allora dire materia è dire azione causale, come testimoniano le parole tedesche per "realtà" che deriva appunto da "agire".

Siccome Schopenhauer paragone le forme a priori a dei vetri sfacettati attraverso cui la realtà si deforma,  la rappresentazione è una rappresentazione "fastamagorica", quindi lui conclude che la vita è sogno. Per illustrare questo, lui cerca in altri filosofi, come Platone, degli esempi. Infatti, Platone diceva che gli uomini "non vivono che in un sogno". Inoltre, si può anche fare un legame con Il Mito della Caverna.

Lì gli uomini vivevano incatenati e forzati a guardare una parete di pietra in cui venivano fatte delle ombre, da dietro le loro teste, con gente che portava oggetti attorno al fuoco. E rimanevano così per tutta la vita. Quella era la realtà per loro. Se per caso uno riuscisse a liberarsi, sarebbe uscito dalla caverna e guardato al sole, visto il mondo e scoperto la verità, avrebbe conosciuto la "vera" realtà e sarebbe tornato per dire agli altri e liberarli, ma sarebbe ucciso. 

Ma al di là del sogno e del fenomeno, esiste una realtà vera, il noumeno, sulla quale l'uomo non può fare altro che interrogarsi, perché è un animale metafisico. Infatti, di tutti gli esseri viventi, l'uomo è l'unico capace di stupirsi della propria esistenza, e questo avviene in accordo con la sua intelligenza.

Più in basso si è nella scala intellettuale, meno un uomo è capace di stupirsi della propria esistenza. Ma la "meraviglia filosofica", come la chiama Schopenhauer, richiede una intelligenza superiore, ma non solo, richiede anhe la consapevolezza della morte e del dolore e miseria della vita, che sono quelle cose che spingono la riflessione filosofica. Forse, se la vita non avesse una fine e non fosse dolorosa, nessuno si avrebbe mai domandato perché il mondo esista e sia così.

La volontà di vivere

Per Schopenhauer la sua filosofia è quella integrazione necessaria alla di Kant, che non ha fornito mezzi per arrivare al noumeno. Ma se noi viviamo nella rappresentazione, come facciamo a squarciare il velo di maya? Come possiamo conoscere il noumeno, la cosa in sé?

Se fossimo solo conoscenza e rappresentazione, o una testa alata di angelo senza corpo, non sarebe possibile uscire dal fenomeno, cioè dalla rappresentazione fisica di noi e delle cose. Ma come siamo anche corpo, non siamo limitati a guardarci dal di fuori, ma possiamo guardarci anche all'interno. Infatti, ripiegare su su noi stessi ci fa accorgere della cosa in sé del nostro io, del nostro essere, che è la brama o la volontà di vivere. Questa è un impulso enorme che ci fa esistere ed agire.

Allora, più che inteletto e conoscenza, siamo volontà di vivere. Il nostro  è una rappresentazione esteriore delle nostre brame interiori. Un'esempio è l'apparato dierente che è una rappresentazione esteriore della volontà di nutrirsi. Infatti tutto il mondo fenomenico è una maniera di manifestarsi della volontà di vivere nella rappresentazione spazio-temporale. Da qui il titolo del capolavoro di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione.

Per esemplificare, Schopenhauer ricorre a una serie di immagini. La relazione tra volontà e intelletto, volontà e corpo, volontà e fenomeno in generale è come quello tra un padrone e un servo, l'uomo e lo strumento, il capo e il cuore.

Infine, la volontà di vivere non è soltanto la radice noumenica dell'uomo, ma è la cosa in sé di tutto l'universo, l'arché, il principio del principio. È il nocciolo del singolo e del Tutto. È presente in ogni essere, in diverse forme e gradi di consapevolezza; dalla materia organica, a livello inconsapevole, all'uomo nella massima consapevolezza.

Caratteri e manifestazioni della volontà di vivere

Siccome è oltre il fenomeno, la Volontà primordiale ha delle caratteristiche opposte a quelle del mondo della rappresentazione e,  per questo, esce dalle forme proprie di questo: spazio, tempo e causalità. Prima di tutto, la Volontà è inconscia, perché intelletto e consapevolezza ne sono solo manifestazioni secondarie. Inoltre, se fosse conscia non sarebbe il principio, ma una sua rappresentazione. La Volontà di Schopenhauer tra l'altro non è quella cosciente, perché s'identifica anche col concetto di energia e impulso, ed è allora spiegabile perché Schopenhauer la attribuisca anche alla materia inorganica e alle piante.

La volontà è anche unica, perché esistendo fuori da spazio e tempo, che possono dividere o moltiplicare gli enti, non è più là di quanto sia qui, non è più oggi che fu ieri e che sarà domani. È dappertutto. Ed essendo oltre il tempo, è anche eterna e indestruttibile, ossia, un Principio senza inizio nè fine. Per questo Schopenhauer dice che alla Volontà è garantita la vita.

Essendo fuori anche della categoria di causa è incausata e senza scopo. È un'energia libera e cieca, senza un perché e senza scopo. Noi possiamo cercare le ragioni della volontà fenomenica, ma non della volontà in sé: si può chiedere a qualcuno perché voglia questo o quello, ma non perché voglia in generale. L'unica risposta possibile sarebbe "voglio perché voglio" cioè "voglio perché ho una volontà irresistibile che mi spinge a volere". La Volontà, infatti, non ha una mèta oltre sé stessa. La vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà; qualsiasi scopo cade entro il vivere e il volere stessi.

Miliardi di esseri non vivono che per vivere, d'accordo con Schopenhauer. Questa è l'unica verità sul mondo. Anche se essi hanno tentato di creare un Dio per dare un fine alla loro vita. Però, non può esistere un Dio nell'universo doloroso di Schopenhauer. L'unico Assoluto è la Volontà. Infatti ad essa sono concesse le caratteristiche normalmente attribuite a un Dio, e con cui i romantici solevano caratterizzare l'infinito.

La vita è dolore

Affermare che l'essere è la manifestazione di una volontà infinita, equivale a dire che la vita è dolore per essenza. Volere significa desiderare, e desiderare vuol dire essere in uno stato di tensione per qualcosa che non si ha ma si vorrebbe avere.  Il desiderio è allora mancanza, vuoto, sofferenza. E siccome nell'uomo la volontà è più cosciente, esso è il più bisognoso degli esseri, che non troverà mai appagamento durevole. Ogni volere viene da un bisogno, da una mancanza. A questa dà fine l'appagamento. Ma per un desiderio appagato ne rimangono vari altri. La stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà luogo ad un nuovo, e l'appagamento non corrisponde in intensità al desiderio che va all'infinito. Quindi, nessun oggetto del volere avrá mai appagamento durevole, e sarà solo come un'elemosina che prolunga la vita del mendico per continuare il suo tormento.

Oltre tutto questo, il godimento (fisico) e la gioia (psichica) corrispondono a una cessazione temporanea di uno stato preesistente di tensione, come lo dicono anche Verri e Leopardi. Schopenhauer dice ancora che per esserci piacere, ci deve per forza essere dolore. La stessa cosa non vale per il dolore, non i può dire che esso sia una cessazione di piacere, perché si può provar una catena di dolore senza nessuna traccia di piacere, mentre ogni piacere nasce da un dolore. Mentre il dolore che s'identifica con il desiderio è qualcosa di permanente, il piacere è solo una funzione derivata da esso, e vive a spese di esso. Tant'è che per sostituirsi al dolore deve annulare sé stesso. Appena viene meno il dolore, il piacere sparisce.

Ogni felicità è allora di natura negativa, e non positiva. Questo viene dimostrato dall'arte, in particolare dalla poesia epica e drammatica. L'eroe viene condotto in una serie di eventi che lo portano alla ricerca della felicità, di una mèta, e alla fine, quando ci arriva, capisce di non trovarsi meglio di prima.

Accanto al dolore, una realtà durevole, e al piacere, qualcosa di fugace, Schoppenhauer mette un'altra situazione esistenziale: la noia. Essa subentra quando viene meno il dolore. La vita umana è come un pendolo che oscilla fra dolore e noia (che sono reali perché in disaccellerazione) e il piacere (illusione perché in movimento) che è un'intervallo fugace.

Ma se il dolore è la legge profonda della vita quello que distingue i casi è la forma attraverso la quale si presenta: varia d'accordo con l'età il sesso, le circostanze e si presenta come odio, invidia, gelosia, infermità, ecc. E quando non ha più modo di manifestarsi: ecco la noia, il tedio.

Poiché la volontà di vivere che pervade tutti gli essere è un vero e proprio desiderio inappagato cosmico, il dolore non riguarda solo l'uomo, ma tutto. Tutto soffre: dal fiore per la mancanza d'acqua, al bimbo che nasce e al vecchio que muore. Ma l'uomo soffre di più perché ha maggiore consapevolezza e così è destinato a sentire di più. Così come il genio soffrirà di più degli uomini comuni.

In questo modo, Schopenhauer dà vita a una delle più forti forme di pessimismo cosmico nella storia del pensiero: il male non è nel mondo, ma anche nel Principio da cui esso deriva. Espressione di questo dolore non è solo la frustazione che scaturisce dalla volontà ma anche la lotta crudele delle cose. Dietro alle meraviglie del creato, ogni essere è angosciato e tormentato, e esiste solo a patto di devorare l'altro. La propria autoconservazione è una lotta che comporta la morte degli altri.

L'esempio di questa terribile lotta è dato dalla formica gigante d'Australia, che se tagliata in due parti fornisce un combattimento tra coda e capo, che può durare fino a mezz'ora o fino a quando le altre formiche non le trascinino via. Così l'individuo è solo uno strumento per la specie, fuori della quale non ha valore. L'unico fine della natura sembra quello di perpetuare la vita, e così anche il dolore.

Il fatto che per la natura interessi solo la conservazione della specie finisce per trovare una manifestazione nell'amore, cosa che Schopenhauer considera basilare nella vita umana, e allora è importante che di questo si occupi anche la filosofia. Per lui l'amore è qualcosa che si impadronisce della mente della popolazione più giovane, e penetra in ogni parte; scioglie vincoli stretti, sacrifica la vita, la richezza, la salute, priva di coscienza l'onesto e rende traditore il fedele.

Ma se l'amore è così forte è perché dietro il suo incanto c'è il freddo Genio della specie che mira alla conservazione della vita. Il fine dell'amore è per la Natura l'accopiamento. Quindi, se dietro all'innamoramento c'è la consumazione di questo amore, è perché l'individuo è lo zimbello, lo strumento della Natura, laddove crede di realizzare la propria volontà e personalità.

Esempio dell'essenza biologica nell'amore è il caso della mantide femmina che dopo l'accopiamento divora il machio, o la constatazione che la donna dopo aver figli perde bellezza ed attrattive.

E, se, allora, l'amore è un'instumento per continuare la specie, non esiste amore senza sessualità.

Per tutte queste ragioni, l'amore è inconsapevolmente visto come peccaro e vergogna, perché commette il maggiore dei delitti: perpetua altre creature destinate a soffrire. Se l'amore allora non è altro che due infelicità che s'incontrano, e che preparano una terza infelicità, l'unico amore di cui si può tessere l'elogio è quello disinteressato della pietà.

Le vie di liberazione del dolore

Nonostante sembri che Schopenhauer abbia creato una filosofia del suicido universale, questo non è vero. Il suicidio non è una negazione della vita, ma la sua affermazione, perché risalta la sua importanza e la sua sofferenza.

Ma allora, come si esce da questo ciclo vizioso? Attraverso delle vie di liberazione del dolore.
Per uscire dal dolore, si deve liberare dalla Volontà di Vivere.

È possibile farlo in 3 modi: attraverso l'arte, l'etica e l'ascesi mistica. L'arte suprema per Schopenhauer è la musica; quando si suona si vive l'istante, non si hanno aspettative, non si pensa, non hai memoria. È temporaneo. L'Etica significa compatire, letteralmente "soffrire insieme", essere in contatto con una persona a punto di capirla a un livello profondo, "empatia". Compatire per conoscere se stesse (Socrate). Quanto all'ascesi mistica, la si può raggiungere in 2 modi: attraverso la castità perfetta, o alla rinuncia ai piaceri. Quello che si ha alla fine è il raggiungimento del Nirvana, l'esperienza del nulla.

Non resta altro che il nulla. Ma non un buio, un'assenza totale, negativa, bensì un'assenza totale del fenomeno. Si esce da questa griglia, dalla relazione spazio-tempo-causalità che è tra l'altro uno stato d'essere, e si va a un terzo pianeta. Nell'annullamento del fenomeno si annulla anche il noumeno




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