domingo, 6 de outubro de 2013

Neoclassicismo - Arte

Il Neoclassicismo
Introduzione

Benché la cultura artística e letteraria di fine ‘700 e inizio ‘800 fosse agitata da uma serie di sollecitazioni di rinnovamento, quella più forte e prevalente fu la classicistica.
Il gusto per l’antico non si era spento dopo il rinascimento ed era una componente caratteristica della cultura, grazie anche alla diffusione di libri e stampe, ai viaggi e all’internazionalizzazione della cultura. Era una caratteristica molto significativa della comunità artistica non solo in Europa, ma anche in altri posto lontani.
Il piacere per lo studio, l’espressione della cultura antiquaria, la creazione del conoscitore e dell’amatore erano elementi che facevano parte del neoclassicismo.

Il Neoclasicismo

Il neoclassicismo è la logica conseguenza del pensiero illuministico nelle arti.
L’arte neoclassica rifiuta gli eccessi del Barocco e del Rococò che interpretavano i sentimenti delle classi dominanti e dei governanti dispotici e guardava all’arte dell’antichità classica greco-romana, specialmente quella greca che si sviluppò grazie alla libertà di cui godevano le poléis.
Il termine “neoclassicismo” fui coniato alla fine dell’800 come qualcose di dispregiativo, indicando un’arte non originale, fredda e troppo accademica. Però finì per leggere bene il desiderio di ritorno al passato e di crezione di un nuovo classicismo dei teorici e artisti che operarono tra la seconda metà del ‘700 e l’età Napoleonica.
Insieme a questo, si unirono gli scavi archeologici di località come Ercolano e Pompei, due città di epoca romana sotterrate da un’eruzione del Vesuvio nel 79 d.C. Questi scavi portarono alla luce, per gli occhi meravigliati del tempo, architteture, statue, affreschi, oggeti di uso quotidiano, gioielli, ecc, che influenzarono ancora di più in senso classico la cultura dell’epoca.

Winckelmann

Il neoclassicismo ha avuto come sede Roma, città di grande ispirazione classica, e il suo maggiore teorico fu il tedesco Johan Joachim Wilckelmann, che studiò medicina, matematica e teologia, e lavorò come bibliotecario, appassionandosi della lettura dei classici greci. Nel 1755 scrisse “I Pensieri Sull’imitazione dell’arte Greca” nella pittura e nella scultura, in cui c’erano già i principi nel neoclassicismo.
Giunto a Roma nello stesso 1755, nel 1758 passò a lavorare come bibliotecario per il Cardinale Albani, uno dei maggiori collezionisti del tempo e fautore di restauri, abitando anche nella sua Villa con lui.
La biblioteca del carninale, una delle più celebri d’Europa e la sua collezione d’arte, che si trovava negli ambienti anticheggianti della Villa Albani o sui giardini, hanno offerto a Winckelmann la possibilità di arrichirsi culturalmente e anche di riflessione.
Nel 1763 pubblicò “La Storia dell’arte nell’antichità”, in cui l’arte antica, cioè l’architettura, fu trattata sia da un punto di vista cronologico, eliminando la concezione omogenea che si era formata di essa, sia da un punto di vista estetico, cioè l’aspetto formale, la qualità. Però questa opera influenzò in modo negativo gli sviluppi dell’archeologia. Quando Lord Elgin portò in Inghilterra i marmi del Partenone, agli inizi dell’800, lo si attribuirono a un rifacimento romano e non all’originale di Fidia, perché erano lontani dalla bellezza idealizzata dai neoclassici, cosò come alla fine dell’800, i frontoni del Tempio di Zeus a Olimpia furono giudicati arte secondaria e provinciale per lo stesso motivo.
Si vede che si faceva fatica a riconoscere in queste sculture e opere, l’immagine che se era creata sotto gli occhi dei neoclassici. Infatti il proprio Winckelmann non ha mai visto in sua vita un’originale greco, ma solo rifacimenti di età romana tardo ellenica, e basò in essi i suoi principi interpretativi dell’arte greca.
Nei Pensieri sull’imitazione dell’arte greca nella pittura e nella scultura, che fu la prima già compiuta teorizzazione del neoclassicismo, Wincklemann partì dal presupposto che il buon gusto aveva avuto origine in Grecia e che sempre che si allontanava da quella terra perdeva qualcosa. La grandezza artistica allora era propria dei Greci. Per essere grandi si doveva imitarli. Però l’imitazione non è lo stesso che la copia. L’imitazione cosiste nell’ispirarsi a un modello al cui si cerca di uguagliare, mentre la copia è molto l’imitativa perché è la riproduzione identica del modello originale.

Nobile semplicità e quieta grandezza

Per la scultura Winckelmann consiglia di imitare L’Antinoo del Belvedere e l’Apollo del Belvedere, due delle più celebri statue della colezione pontificia che i viaggiatori del Grand Tour amavano farsi rappresentare vicini.
L’Antinoo era caratterizzato dalla presenza di tutto quello che c’era in natura, e l’Apollo era importanti per formarsi un’idea che superi le proporzioni più che umane della divinità. Inoltre, queste imitazioni servivano a insegnare a pensare e immaginare con sicurezza, una volta che in essi modelli erano presenti gli ultimi sviluppi del bello umano e del bello divino.
Già nel gruppo di Laocoonte, Wincklemann identifica delle caratteristiche specifiche e anche enuncia il principio che sarà seguito con fervore dai neolclassici: la principale caratteristica dell’arte greca è una nobile semplicità e una quieta grandezza, sia nella posizione che nell’espressione. Così come il fondo degli oceani è immobile nonostande la superficie sia agitata, le sculture greche, per quanto i soggetti stiano mossi dalle passioni, hanno l’espressione che mostra sempre un’anima grande.
Wilckelmann sostiene che più tranquilla è la posizione del corpo, più in grado è di esprimere il vero carattere dell’anima. Una scultura neoclassica allora, non poteva mai mostrare passioni e situazioni tragiche mentre esse accadono. L’artista doveva sempre rappresentare i soggeti prima o dopo l’evento tragico, quando le passioni non si erano ancora verificate, o erano già calmatesi.
Il contorno, il drappeggio
Wincklmann riconosceva nelle opere degli artisti oltre che la belleza, la “nobile semplicità e quiete grandezza”, anche il contorno e il drappeggio. Da qui deriva il gusto neoclassico per il contorno e per il disegno.
Siccome ancora si conosceva poco della pittura greca, e quello che era scoperto a Pompei e Ercolano era non greco, per la pittura si doveva ispirare agli artisti vissuti all’epoca di Papa Leone X, in speciale Raffaello, il più classico degli artisti rinascimentali.
Infatti Mengs si ispirò al Parnaso di Raffaello nel dipingere lo stesso soggetto nella volta del salone di Villa Albani. L’opera ha un grande valore didattico perché é la proto-pittura neoclassica e fu realizzate secondo le concessioni di bellezza che conbacciavano con quelle di Wincklemann stesso. Infatti, in un’altra opera, “Pensieri sulla belezza e sul gusto nella pittura” Wincklemann, ispirato da Mengs, scrisse che il pittore che volesse trovare il buono, cioè il miglior gusto doveva ispirarsi a quattro principi: al bello degli antichi, al gusto dell’espressione di Raffaello, a quello dell’armonia e del piacevoli di Correggio, e a quello della verità, di Tiziano, cioè il colorito.

Antonio Canova

Canova scrisse delle lettere ai suoi amici in occasione dei suoi soggiorni in Parigi nel 182 e 1810 il quant fosse grato a Napoleone per l’onore che gli era concesso dall’imperatore, anche al puno di invitarlo ad abitare nella sua corte a Parigi. Nelle stesse lettere però, è rivelato il suo carattere semplice e riservato, di uno che era appassionato per Roma, dedicato allo studio e ai doveri e all’arte che era intesa come fonte di vita.
Antonio Canova nacque vicino a Treviso, nel 1757. Figlio di uno scalpellino, fece il suo apprendistato a Venezia, dove aprì uno studio nel 1775. Nel 1779 si era già trasferito a Roma, presso il ambasciatore della Repubblica. A Roma seguì corsi di nudo all’Accademia di Francia, e lì visse per praticamente tutta la vita, con eccezione dei periodi in cui fece visite ai luoghi di nascita, e dove si recò per forza di incarichi ricevuti, come in Austria, in Francia nel 1802 e nel 1810 chiamato dallo stesso Napoleone, e poi un’altra volta a Pargi nel 1815, dopo il Congresso di Vienna, come ambasciatore per riottenere le opere d’arti sequestrate da Napoleone allo Stato Pontificio. Da Parigi fu anche a Londra per vedere i marmi del Partenone portate da Lord Elgin.
Fu amato e ammirato da amici e potenti. Ha ricevuto incarichi della nobiltà veneta e romana, da Napoleone e familiari, da aristocratici russi, dotti inglesi, dai Borboni di Napoli, Asburgo d’Austria e dallo Stato Pontificio. Nel 1802 divenne Ispettore Generale delle Belle Arti dello Stato pontificio e cedeva tutto il suo stipendio all’Accademia di San Luca. Morì a Venezia nel 1822.

Il disegno

Canova incarna i principi neoclassici di Winckelmann sia nel disegno sia nella scultura.
I suoi disegni mostrano un’attenzione speciale per il nudo maschile e femminile, per temi dell’Antico che risalgono al primo periodo romano, e le cosiddette accadémie.
La ragione di numerosi disegni era avere una gamma il oiù grande possibile di atteggiamenti, posizioni e espressioni per lo studio e la resa delle sculture che via via gli erano richieste.

Teseo sul Minotauro

La prima sculture che fece dopo l’arrivo a Roma fu Teseo sul Minotauro, su commissione dell’ambasciatore della Repubblica. Il sogetto e il modo in cui è proposto dimostra la vicinanza con le teorie di Winckelmann.
L’eroe è seduto sul mostro che ha appena ucciso: Canova ha scelto il momento successivo all’azione, quando ogni passione e rabbia del combattimento non ci sono più.  Nella posizione tranquilla di Teseo, la sua grande anima è in armonia con il suo corpo, che non è più scosso da passioni. Teseo, simbolo della vittoria della ragione sull’irrazionalità bestiale è seduto sul Minotauro, come un cacciatore su una preda. Il Minotauro è in una posizione a “s” rovesciata, mentre Teseo appaggia la mano destra sulla sua gamba sinistra; il braccio sinistro è piegato e ha in mano una clava, il corpo è inclinato indietro, pendendo lievemente alla sinistra di chi guarda, il capo reclinato in avanti, mentre la gamba destra è piegata in angolo acuto e quella sinistra lievemente flessa è tesa.
Le due figure del gruppo scultoreo a forma piramidale sono perfette secondo le concessioni classiche.
Scopo di Canova è il raggiungimento della bellezza ideale, conseguito dai greci, e poi tentato anche dagli artisti del Rinascimento, di quella bellezza che si forma nella mente dell’artista dopo che esso si rende conto dell’impossibilità di trovare un corpo perfetto in natura. Questo si può conseguire se si domina completamente la tecnica scultorea e se si imitano i greci.
Questa sua scultura, così come le altre, è in marmo, perché per Canova esso era l’unico materiale capace di mostrare la mobidezza e la flessibilità della carne. Perché queste caratteristiche fossero risaltate, il marmo veniva totalmente o parzialmente trattatto con cera rosata o ambrata per essere il più vicino possibil al reale.
Questa prima opera, Canova fece da solo, e modificò alcuni particolari nell’esecuzione. Ma poi organizzò la sua bottega in modo da lavorare all’idezioni e all’attività creativa. Così, basandosi sul suo disegno finale, faceva un modello in creta, che gli assitenti utilizzavano per fare il calco in gesso e che poi sbozzavano nel marmo. Quando l’abbozzo era vicino allo sviluppo definitivo, Canova riprendeva l’azione, concludendo l’opera attraverso la sua sensibilità.
Tutte le sue sculture erano condotte fino al sommo sviluppo, il marmo era levigato fino ad essere liscio, translucido, quasi trasparente. Questo perché Canova era attento ai particolari, ma anche all’aspetto generale con effetti di grande luminosità e tenue ombra.

Amore e Psiche

Nel Gruppo “Amore e Psiche che si abbracciano” finito nel 1793, Canova riprende una favola dell’opera “L’asino d’oro” di Lucio Apuleio.  L’episodio che ha rappresentato è quello in cui Amore rianima Psiche che è svenuta perché, contro gli ordini di Venere, ha aperto un vaso ricevuto nell’Ade da Proserpina.
Canova ha fermato nel marmo un attimo sospeso: la tensione dei corpi che non si stringono ma si sfiorano in un sottile erotismo, mentr Amore guarda con dolcezza Psiche che rettribuisce o sguardo, e i due sono immersi nella bellezza dei volti uno dell’altro. Questo attimo sospeso è quello anteriore a un bacio, indiato già dal corpo e dagli sguardi.
La visione frontale è la più signigicativa, principalmente per la geometria dell’opera, formata da due archi: uno risalta il corpo in torsione di Psiche, l’altro passa per l’ala sinistra e la gamba destra di Amore. Due cerchi s’identificano con le braccia dei due giovani, e indicano il punto d’intersezione tra gli archi.
Il godimento dell’opera però, non è solo frontale. Man mano che i gira attorno alla scultura, si vedono cambiare i rapporti tra i corpi dei due giovani, cosa che indica la complessità delle opere di Canova.

Adone a Venere

Nel 1789 Canova conclude il modello che lui stesso ha scelto, basato su un mito greco, per l’esecuzione dell’opera per la quale non ci fu commissione: Adone e Venere. Essa fu conclusa nel 1794 e comprata dal Marchese di Berio, e poi, nel 1820 passata da un’altro proprietario, e in questa occasione, Canova intervenì ancora una volta in alcuni particolari.
Il gruppo raffigura l’ultimo saluto di Venere all’amato e bello Adone, che partito per una battuta di caccia sarebbe ucciso da un enorme cinghiale mandatogli contro dal rivale Marte, accecato da gelosia. Insieme a Venere e Adone c’è un’altro personaggio, il fedele cane di lui che sta dietro alla coppia col muso all’insù.
Venere si appoggia alla spalla sinistradi Adone con la mano destra e gli caezza il mento con l’altra mano, mentre Adone porta vicino a sé la dea, cingendola dolcemente alla vita. Solo un drappo che nasconde le gambe di Venere separa i due corpi. Adone poggia la gamba sinistra e tiene l’altra protesa in avanti. Il bacino ha una rotazione opposta a quella delle spalle e il suo braccio destro scivola inerte lungo il fianco.
Canova fa i corpi quasi uguali per la mancanza di una muscolatura più robusta di Adone, sottolineando così la sua giovinezza. Le labbra aperte, le teste inclinate, gli occhi socchiusi al guardarsi l’un l’altro, e le pose rilassate dimostrano l’amore e la tenerezza resi nell’opera.


Ebe

Di Ebe Canova fece 4 esemplari, però quello di cui parleremo è il secondo nel tempo, oggi conservato all’Ermitage di San Pietroburgo.
Ebe è la personificazione dell’etterna giovinezza, figlia di Zeus e di Era, è quella che porge da bere agli dei nei banchetti.
La dea è sostenuta da una nuvola, e il suo busto è scoperto, mentre la parte inferiore del corpo è coperta da una veste leggera e dalle mille pieghe  che l’aria fa aderire al suo corpo e mostrarne i contorni.
Il chiaroscuro più forte si vede nelle pieghe della vesteche accompagna la gamba destra arrettrata. Tutto in Ebe richama alla grazia: il suo corpo giovane, il volto perfettamente ovale incorniciato da riccioli che sporgono dal suo diadema, il modo con cui afferra la coppa e l’anfora, il modo sottile il cui il suo corpo è proteso in avanti mentre il busto è leggermente inclinato indietro come se fosse soffiato dal vento.
Dopo del primo esemplare, Canova fu criticato da alcuni contemporanei per la mancanza di espressione nel volto della dea, a cui lui rispose che era una mancanza voluta, perché se ci fosse una forte espressione, lei sarebbe una baccante e non una divinità. Questo dimostra come Cannova voglia aderire ai principi dettatti da Winckelmann di che l’anima grande corrisponde a un’atteggiamento tranquillo.

Paolina Borghese

Dei rapporti di Canova con Napoleone sono testimonianze le opere eseguite per lui e per familiari, di cui la più celebre è il rittratto di Paolina Borghese, sorella di Napoleone e moglie del principe romano Camillo Borghese.
Paolina è raffigurata come Venere vincitrice, infatti porta in un gesto grazioso il pomo della vittoria datto da Paride a Venere, giudicata da lui da dea più bella. Paolina è rappresentata adagiata su un divano con una sponda rialzata, appoggiata da due cuscini. Il corpo, nudo fino alla regione inguinale è lì coperto da un drappo che risalta e sostituisce i contorni dell’inguine lasciando scoperte una gamba e l’attacco dei glutei, dimostrando un’evidente erotismo, molto più sentido di quanto non sarebbe se Paolina fosse stata completamente nuda.
Il volto idealizzato e le sembianze divine collocano Paolina fuori dalla realtà terrena, ma la cera rosata spalmata da Canova nelle parti nude contribuisce a riportarla al mondo umano.
Il letto di marmo su cui poggia il marmo nascondeva un meccanismo che permetteva alla statua di girare ed essere illuminata da diversi modi, creando un’infinità di nuove possibilità di “chiaro-scuro”.

Jacques-Louis David

Nacque a Parigi nel 1748 dove iniziò i suoi studi nell’Académie des Beaux Arts, partipando varie volte al Prix de Rome, il premio che avrebbe dato al vincitore la possibilità di soggiornare a Roma e diventare pensionnaire dell’Accademia di Francia della città ed essere in contatto con le antichità lì presenti.
Nel 1775, David vinse il Prix de Rome e mentre viaggiava per arrivare alla città fu colto da un disagio perché vedendo le arti italiane e romane non si considerava all’altezza degli ideali del tempo, cioè, da quelli proposti da Winckelmann.
Soggiornò in Italia dal 1775 al 1780 (e poi una seconda volta dal 1784 al 1785) e lì ha potuto venire a contatto con la scultura e pittura romane, principalmente quella di Raffaello. Dopo un viaggio a Napoli, Pompei ed Ercolano ha dichiarato di aver paerto gli ochi all’antico come se fosse operato e cataratta, e solo allora capì che operare come gli antichi e come Raffaello era essere artisti.
Rientrato in Francia ha ricevuto numerosi incarichi, e ha partecipato attivamente alla Rivoluzione nel 1789, fu deputato e poi presidente della Convenziona Nazionale, era sostenitore di Robespierre e dpo la sua morte fu incarcerato per un periodo nel 1794. Dopo, come altri intellettuali dell’epoca, ha sofferto il fascino di Napoleone, tanto da nel 1804 essere nominato il Primo Pittore dell’Imperatore. Dopo la caduta di Napoleone e della restaurazione, nel 1816 fu costretto all’esilio in Belgio dove morì nel 1825.

Il disegno

Normalmente i disegni di David erano fatti in colori scuri, toni di bianco, nero e erano identificabili per il netto conorno e per l’uso di mina di piombo, penna o inchiostro. La finalità dei disegni di David era quella di rendere chiari i segni, pura l’immagine e netto il contorno.

Il Giuramento degli Orazi

La presenza a Roma fu molto profittosa per David. Nelle opere delle Stanze Vaticane, e in quelle di Raffaello, lui identificò quello che era nel suo vedere la più grande caratteriatica del pittore rinascimentale: isolare ogni soggetto in modo da renderlo autonomo, nonostante esso fose inerito in un scenario con altri tanti protagonisti e personaggi. E questo anche lui voleva fare.
Il Giuramento degli Orazi fu fatto el 1784, nel secondo soggiorno romano, su commissione del Re di Francia e l’anno seguente fu esposto nel Salon, l’esposizione di opere d’arte contemporanee che si svolgeva a Parigi periodicamente a partire dal XVIII secolo.
Il soggetto è scelto dalla storia della Roma Monarchica, quando nel regno di Tullo Ostilio i 3 fratelli Orazi, romani, e i 3 fratelli Curiazi, albani se affrontarono per risolvere un conflito sorto tra Roma e Albalonga. I Curiazi furono tutti morti, menre solo uno Orazio visse proclamando la vittoria della sua patria. Il soggetto scelto mostra quindi la virtù patriottica dei giovani, quello che David crede certo e che vuole dimostrare in modo da insegnare valori etici, civili e politici al pubblico.
La scena, anche un po’ teatrale, si svolge nell’atrio di una casa romana illuminata dalla luce solare. La prospettiva è resa dalle lastre di marmo del pavimento; al fondo ci sono dei pilastri e delle colonne doriche dal fusto liscio che reggono archi a tutto sesto e delimitano un porticato, che alla destra, si apre mostrando un passaggio agli ambiente abitativi.
I personaggi sono dividi in due gruppi incorniciati dalle arcate estreme, mentre il padre si erge nel centro, consapevole della propria centralità e del fatto che mette in rischio la vita dei figli al chiedergli il giuramento “O Roma o morte” che ha appena pronunciato, una volta che è l’unico con le labbra non chiuse. Il rosso del mantello chiama attenzione su di lui, dimostrandolo come la chiave del dipinto, levando in alto le spade che poi darà ai figli. È proprio sulla mano che tiene le spade che sta il punto di fuga.
I figli, invece, protendono le braccia in direzione al padre e alle spade nel giuramento. Sono stretti in un abraccio indicando grande forza morale e unanimità di intenti, unione.
A destra le donne mute e tristi  sono abbandonate nella rassegnazione. La madre, in un piano più arretratto, copre i due figli più giovani con suo manto scuro, presagio di lutto. La figlia Camilla con le mani in grembo non ha più lacrime ed è versata verso la cognata Sabina, moglie del fratello maggiore, che appoggia la mano destra nella spalla di Camilla, col capo chino.
In conformità con l’estetica neoclassica, Dabid non mostra il combattimento, ma il momento anteriore, il giuramento solenne, congelando nei gesti dei personaggi l’amore di patria.

La Morte di Marat

Nel 1703 il medico rivoluzionario Marat, nato in svizzera, direttore del giornale “amico del popolo”, deputato della Convenzione, presidente del club dei giacobini, tra i responsabili della cadute dei girondini, fu ucciso dalla nobile Marie Corday, seguace delle idee girondine.
David fu allora incaricato dalla Convenzione di fare un dipinto redendo onore al martire della rivoluzione.
Nel dipinto non compaiono in scena gli stessi elemeti presenti nell’ambiente del delitto, che avrebbero fatto apparire la morte di Marat troppo vicina a quella di un’uomo comune. La tappezzeria in carta fu sostituita da un fondo scuro quasi monocromo, non fosse per le pennellate gialle che formano punti dorati che sembrano voler investire Marat. La cartina della Francia e delle pistole appese sulla parete non sono rappresentate, e il cesto che serviva da tavolino fu sostituito da una cassetta di legno chiaro che David trasformò in una sorte di lapide con la semplice dedica “A Marat, David”.
La sobrietà dell’ambiente con la vasca che Marat usa a scopi curativi di una malattia di pelle, il pezzo di legno coperto col drappo verde e serve da scrivania, la semplica cassa di legno, contribuiscono a mostrare la povertà rivoluzionaria di Marat, repubblicano incorruttibile, ucciso a tradimento per le sue virtù, le stesse a cui Marie Corday fece appello per essere ricevuta.
Marat ha nella mano un bligietto e lo mostra all’osservatore: è una supplica di Corday che dimostra come un’inganno ha potuto culminare nella morte di un’uomo così valoroso.
Il calamaio e la penna ancora sulla mano, il coltello lasciato per terra sono come gli strumenti della Passione. Infatti David si ispira alla Pietà e alla Sepoltura di Cristo come si vede dalla ferita ancora aperta dalla quale esce il sangue, dal capo chinato sulla spalla destra, dal braccio destro che pende inerte dalla vasca, dalle lenzuola macchiate di sangue che richiamano al sudario.
Al calore del coinvolgimento emozionale di David si contrappongono la freddezza dei colori, della morte.
Il parallelo con la figura di Gesù, non tanto nascosto, serve a innalzare Marat tra gli uomini comuni e mettere le sue virtù sull’alto, indicandolo come esempio da essere seguito. La stessa geometria della composizione dimostrano elementi importanti. Il punto di fuga sta in alto, sulla destra, consentendo una visione dall’alto verso il basso. La testa di Marat sta sull’asse orizzontale del dipinto, il braccio destro sull’asse verticale, il calamaio sta lungo l’asse diagonale, e il gomito del braccio destro sta sull’altra diagonale. Non acaso, il coltello lasciato indietro sta anche sull’asse verticale.
Ancora un’altra volta David sceglie di rappresentare la scena non nel momento tragico, ma qui nel momento successivo, in cui non si conosce nulla della figura dell’assassina, e di lei c’è solo il coltello, testimone della sua malvagità che constribuisce a esaltare il carattere di Marat. La sua figura, resa in un’ambiente distaccato è già un monumento alle future generazioni.
L’eco del dipinto fu così grande da creare l’esigenza di riproduzioni in stampa e in copie (fatte dall’atelier dell’artista).

Le Sabine

Iniziato nel 1794, nel tempo di carcere, fu finito nel 1799. L’evento narratto è tratto dalla leggenda narrata da storici e poeti romani, secondo la quale i Sabini, guidati da Tazio, vanno a lottare contro i romani guidati da Romolo, per ricuperare le donne che erano state rapite da loro per iniziare l’insediamento nella neonata Roma.
Per evitare spargimento di sangue, Tazio e Romolo decidono di affrontarsi in un duello, ma vengono fermati da Ersilia, figlia di Tazio e moglie di Romolo, che dimostra la forza del sentimento coniugale, fraterno e paterno capace di evitare molte tragedie e far sì che due popoli si uniscano anche con delle differenze.
Il significato più probabile, principalmente se si guarda la data, è quello politico che David dimostrava sempre attraverso le sue opere, e anche partecipando attivamente come cittadino. Lui voleva trasmettere il messagio di incentivo alla rinuncia alla vendetta e il cammino verso la pace nazionale.
La qualità artista della composizione è elevata con i nudi eroici di Tazio a sinistra, di fronte e Romolo a destra, visto da dietro, mentre Ersilia è al centro con le braccia e perne divaricate a separarli. Questa nudità eroica è una novità nel dipinto, anche se criticata da alcuni, perché si alterna nella vista di fronte e da dietro dalla sinistra verso destra.
Nonostante ci sia un rilievo notevole e costruzioni romane sul Campidoglio dai quali partono le linee prospettiche fino al capello di Romolo, la geometria è quello che piu qualifica questo dipinto. La maggior parte dei personaggi, principalmente i più importanti, si trovano sotto la metà del dipinto, e la mezzeria è indicata da una donna in rosso che leva le mani sul capo. Le pose di Tazio e Romolo insieme a quella di Ersilia formano due triangoli nella composizione, congelando l’azione principale sul primo piano, mentre la donna che solleva il bambino un po’ più al fondo dimostra la dinamicità del quadro, anche nel fermare le confuse armate del nemico.

In questo dipinto si deve la conoscenza dell’antico e anche l’orientamento di David della traduzione di forme scultoree su quelle pittoriche. 

domingo, 22 de setembro de 2013

Naturalismo e Verismo

In riferimento alle pagine: 8, 9, 10, 59, 60, 61, 62, 64, 66, 67, 69, 70, 71, 81, 82, 83, 84, 85, 86, 87, 88, 89, 190, 192, 193, 194, 195, 196, 197, 198, 199, 200, 201, 205, 206, 207, 208, 209, 210, 211, 217, 218, 219, 220, 221, 222, 223, 224, 225, 226, 227, 229, 230, 231, 232, 233, 234, 235, 236, 238, 239, 240, 241, 242, 243, 244, 245, 259, 260, 261, 262, 263, 264, 265, 271, 274, 275, 276, 277, 278, 279, 280, 281, 282, 283, 284, 285, 286, 287, 288, 289, 290, 291, 292, 293, 294, 295, 296, 297

Gli intellettuali di fronte alla modernizzazione

Nonostante ritardi e limiti, la modernizzazione arrivò in Italia negli anni '70 e '80 dell'800, portando anche l'industrializzazione. Se per noi, oggi, questo non è tanto rilevante, per chi viveva in quell'epoca invece ha avuto una grande importanza. Così le idee correnti tra scrittore e uomini di cultura naturalmente si ispirarono alla nuova realtà economica e sociale che si affemava.

Quindi, c'erano tre tipi di atteggiamenti degli scrittori dell'epoca:
1) Un'atteggiamento apologetico, che credeva che la modernità fosse la realizzazione del progresso.
2) Un'atteggiamento di rifiuto romantico, che credeva necessario un riscatto dei valori del passato.
3) Un'atteggiamento che non esalta e non condanna, ma cerca un rapporto conoscitivo e di indagine della realtà, senza slanci verso il futuro e nè verso il passato.

Il posivitismo

L'atteggiamento apologetico è tipico della cultura positivistica che si diffuse nell'opinione pubblica dell'epoca. La cultura positivistica si affermò prima in Europa in paesi più economicamente sviluppati come Inghilterra, Francia e Germania, e nella seconda metà dell'800 arrivò anche in Italia. Essa ha le sue basi nel capitalismo industriale che si verifica nel corso del secolo e dei cambiamenti sociali, nei modi di vita e nella mentalitá che esso produce.

L'espansione della produzione e lo sfruttamento delle risorse hanno bisogno della conoscenza scientifica e dell'applicazione tecnologica. Ci sono in questo periodo importanti scoperte scientifiche in campo temodinamico, chimico, biologico, fisiologico nonché le applicazioni del vapore e dell'elettricità. Il treno, il mezzo di trasporto della Rivoluzione Industriale divenne nell'immaginario collettivo il simbolo della modernità. Ci fu anche una maggiore diffusione dell'istruzione, perché benché l'industrializzazione porti benessere, porta anche una maggiore esigenza di conoscenze per il suo sviluppo.

Il mito del progresso 

L'espansione industriale e lo sviluppo della scienza e dell tecnica portano alla fiducia entusiastica nelle forze dell'uomo e nelle possibilità del sapere scientifico e tecnologico. L'ottimismo si traduce nel culto della scienza. Il positivismo propone come figura mitica lo scienziato, accanto a figure come il medico, l'ingegnere, il capitano d'industria e anche il maestro, visto come colui che trasmette conoscenza. 

L'esaltazione della scienza posa su alcune basi:
1) Si crede che l'unica conoscenza vera sia quella scientifica, e l'unico metodo valido sia quello della scienza.
Per questo si tende al rifiuto di qualsiasi visione religiosa, idealistica, metafisica della reltà. Solo quello che è legato alle leggi materiali, fisiche, biologiche, chimiche e che può essere dimostrato sperimentalmente è reale.
2) Il metodo della scienza deve essere esteso a tutti i campi. Nessun aspetto del reale deve restare fuori dell'indagine scientifica. Così come essa si esercita con i fenomeni naturali, deve esercitarsi sull'uomo e la società, sui suoi sentimenti, pensieri, arte, e cultura.
3) La scienza ci da degli strumenti per poter conoscere il reale e così dominarlo. Di qui la fede positivistica nel progesso, che è garantito dalle conquiste scientifiche in ogni campo che consentono di dominare la natura e fare un mondo più giusto, diminuendo i mali fisici e sociali, portando benessere e la crescita della civilizzazione. 

Nostalgia romantica e rigore veristico

Questa concessione nonostante fosse egemone non dominava completamente il quadro culturale, perché in ogni epoca ci sono delle contraddizioni e tedenze molto diverse e contrastanti.

Per esepmio, gli esponenti della scapigliatura milanese hanno un atteggiamento ambivalente verso la modernità, perché da un lato vogliono cantarla come reale, ma sono nostalgici dei valori del passato e la bellezza che il progresso distrugge. 

Il rappresentante più attivo del terzo ateggiamento è Verga, in cui sopravvivono anticapitalismo e antimodernismo romantici, che si vedono nel vagheggiamento del mondo arcaico della campagna, sede di una genuinità e di innocenza primordiali. Dall'altra parte, però si afferma in Verga una visione naturalistica della realtà, che lo fa studiare con rigore impassibile i meccanismi della lotta per la vita in tutti gli ambienti sociali, a porsi davanti alla modernizzazione con un rapporto conoscitivo.

La Scapigliatura

Il termine "scapigliatura" fu porposto da Cleto Arrighi per tradurre bohème, e passò a designare un gruppo di scrittori attivi principalmente a Milano, insofferenti per la letteratura e a mentalità contemporanee dimostrando il tipico contrasto romantico tra intelettuale e società borghese.

Avevano un'atteggiamento ambivalente davanti alla modernità, che al loro vedere emarginava l'intelletuale e esaltava il progresso e il profitto. Così, anche se rifiutano tale modernità in favore dei valori del passato, si pongono come cantori del vero utilizzando il metodo scientifico del Positivismo. Dal romanticismo prendono invece il gusto per il macabro, la tematica dell'irrazionale e il culto estetizzante dell'arte.

Il naturalismo Francese
I fondamenti teorici

Gli scrittori veristi italiani si sono ispirati, anche con qualche divergenza, dal Naturalismo, sorto in Francia negli anni 70 dell'800. Il retroterra culturale e filosofico del Naturalismo è il positivismo.

Il pensatore da cui derivano le teorie e le formule del Naturalismo è Hippolyte Taine, e cui teorie erano già conosciute negli anni 50 e 60 e che credeva a un rigoroso determinismo materialista, dicendo que anche i fenomeni spirituali erano prodotti dalla fisiologia umana ed erano determinati dall'ambiente in cui l'uomo viveva. Taine stesso, como critico utilizzò le sue teorie in letteratura, volendo che essa diventasse uno strumento per l'analisi scientifica della realtà, attraverso principalmente il principio deterministico dell'influenza della razza, dell'ambiente e del momento storico.

I precursori

In un saggio, Taine aveva già messo come uno scrittore-scienziato Honoré de Balzac, autore di un quadro della società francese dell'epoca della Restaurazione nella Commedia Umana. Era importante per la sua analisi quasi da anatomista e chimico della natura umana. Accanto a Balzac, furono anche ispiratori del Naturalismo gli scrittori realisti deglia anni 50 come Gustave Flaubert per la sua teoria dell'impersonalità. Infatti lui diceva che lo scrittore doveva essere come Dio nella creazione, onnipotente ma invisibile, da essere sentito sempre, ma visto mai. E che le arti dovevano elevarsi al di sopra dei sentimenti personali, e che era già tempo di darle una precisione come quelle delle scienze fisiche. C'erano anche i fratelli Edmond e Jules de Goncourt, importanti perché costruirono i loro romanzi nella base di una documentazione minuziosa degli ambienti sociali, di una nuova preocupazione coi cti inferiori e con l'attenzione a episodi di degradazione umana e casi patologici.

La poetica di Zola

Queste esigenze di trasformare il romanzo in un modo di indagine scientifico ebbe come uno dei maggiori rappresentanti Emile Zola, che riprese la realtà anche nelle sue forme più crude in modo da essere considerato un caposcuola.

Le concessioni che stanno alla base della sua narrativa si presentano nell'opera "Il Romanzo Sperimentale" del 1880. Zola sostiene che il metodo sperimanetale delle scienze, usato prima in corpi inanimati (chimica e fisica) e poi animati (fisiologia) doveva estendersi allora anche allo spirituale, cioè alla sfera intelettuale e sentimentale dell'uomo. E poiché letteratura e filosofia si occupano di questi campi, esse dovevano entrare a far parte delle scienze e utilizzare il metodo sperimentale. Da qui "romanzo sperimentale": si presente al pubbico una storia come uno sperimento scientifico.

I presupposti di queste teorie sono che le qualità spirituali sono un dato di natura come quelle fisiche, e le leggi deterministiche controllano il fisico umano cosí come i pensieri e i sentimenti. Il romanziere-scienziato ha allora il compito di osservare un temperamento e metterlo in un certo ambiente e vedere i suoi sviluppi e l'influenza di questo ambiente sociale, capace di modificare aspetti della vita individuale.

La conclusione di questo pensiero di Zola è che il fine della scienza sperimentale è fare l'uomo impadronirsi delle risorse e dominarle, e così è vicino il compito del romanzo sperimentale: impdronirsi dei meccanismi psicologici dell'uomo e poi, a livello individuale e sugli ambienti operare quanto necessario per il miglioramento della società; Lo scrittore ha allora il compito di aiutare le autorità politiche ed economiche a capire i movimenti sociali e costruire una migliore società. Alla base del romanzo sperimentale di Zola c'è una concessione progressista della società e della funzione dello scrittore che ha un compito sociale e politico.

Gustave Flaubert

Nato nel 1821 a Rouen, in una famiglia borghese (il padre era chirurgo). Negli anni del liceo ha letto moltissimi libri (Cervantes, Shakespeare, Byron), molti di ispirazione romantica, che poi l'autore rifiutò per motivi stilistici, ma continuò ad avere un importante parte nella sua personalità.

Tra i 18 e 22 anni cominciò a scrivere le sue opere, piene della passionalità giovanile, ma che già avevano slanci della sua fasi più matura. Poi si trasferí a Parigi dove cominciava a studiare diritto, ma siccome preferiva stare nell'ambiente letterario, uscì dall'Università, anche a causa di disturbi nervosi che lo accompagnarono per tutta la vita. Nel 1846, dopo la morte del padre e della sorella passa a vivere da solo in una casa di campagna a Croisset. Stringe una relazione con la scrittrice Louise Colet con ui scambia bellissime corrispondenze. Si delinea anche la sua poetica: rifiuta ogni lirica di tipo romantico, cerca la rigorosa impersonalità, uno stile perfetto che attraverso l'uso della parola giusta faccia le cose parlare da sé stesse, senza bisogno della mediazione dello scrittore.

Tra il '45 e il '51 viaggia con un amigo in Grecia, Italia e Medio Oriente. Poi si chiude nella sua residenza dove si dedica alla scrittura, e passa intere giornate lavorando su una frasi, cercando la parola giusta o la giusta cadenza musicale.

Dal '51 comincia a scrivere Madame Bovary, ispirata a un fatto di cronaca, che ha grande successo. Subsice un processo per immoralità ma viene assolto.

Nel 1880 scrive "Il Romanzo sperimentale". Muore nello stesso hanno per emorragia cerebrale.

Madame Bovary
La vicenda

È la storia di Emma, una ragazza di provincia, che sposa Charles Bovary, un ufficiale sanitario, di personalità mediocre. Emma, a causa degli innumerevoli libri che ha letto, sogna con una vita lussuosa, piena di amori passionali e sentimenti sublimi, e trova delusione nel matrimonio e nella vita provinciale a Tostes. Però il marito decise di trasferirsi, a causa della sua salute, senza accorgersi dell'insofferenza di Emma.

Nell'altra cittadina Emma soffre lo stesso per la noia della vita di campagna e per gli abitanti meschini della città come il farmacista Homais, democrata e entusiasta del progresso. Però trova un'anima gemella in Léon, un giovane notaio, anche lui infelice per la vita di campagna e intraprende con lui una relazione platonica. Ma quando Léon parte, cade di nuovo nella noia e diventa una preda facile di un dongiovanni, Rodolphe, ricco proprietario della regione, che la delude.

Quando torna Léon, allaccia con lui una relazione recandosi fino a Reuen per incontrarlo. Però cade presto di nuvo in delusione. Comincia a vivere una vita stravagante e s'indebita con un usurario. Chiede aiuto agli ex amanti in vano, e la situazione precipita con il sequestro giudiziario. Emma allora prende del veleno e muore. Charles, innamorato della moglie al suo proprio modo, rimane sconvolto e conduce una vita solitaria. Muore con una ciocca dei capelli di Emma in mano. Il romanzo di chiude con iil trionfo del farmacista Homais, simbolo della stupidità borghese, soddisfatto di sé per aver ricevuto la Legion d'onore (come un MBE).

Emma strumento e oggetto di critica

Madame Bovary è un'opera complessa. Emma, in essa, con i suoi sogni di una vita diamica, lussuosa e con sentimenti sublimi e nobili è una forma di contestazione della realtà borghese provinciale, e oggettivamente a una funzione critica: la sua noia fa affiorare tutte le negatività dell'ambiente in cui vive, dimostrando il bisogno di un rinovamento, di un'alternativa, di qualcosa di autentico.

Soggettivamente, anche lei partecipa alla stupidità. I suoi sogni romantici provengono dai libri e sono sempre gli stessi trasportati dai personaggi dei libri alla sua vita, in un livello di mediocrità borghese. Non è poi tanto diversa del farmacista Homais, che rappresenta la stupidità della borghesia soddisfatta. Così romanticismo degradato e stupidità borghese sono usati uno contro l'altro da risaltare i difetti dei due. L'autore ha un atteggiamento estremamente problematico.

La costruzione narrativa

Questo atteggiamento problematico si riflette anche nella costruzione della narrativa. Madame Bovary inaugura un nuovo modo di scrivere nell'800 e fa tramontare il romanzo "autorale", in cui l'autore è onnisciente, e da i suoi giudizi, commenti, spiegazioni nella storia, tipici di Scott, Manzoni, ecc.

Nel romanzo di Flaubert, il narratore è praticamente invisibile, secondo il criterio di impersonalità, rinuncia ai suoi interventi, e per lunghi tratti leggiamo solo il resoconto parziale e limitato di ogni personaggio, e non sappiamo di quello che anche lui o lei non sa. Lo strumento principale di questa focalizzazione è il discorso indiretto libero, che diverrà molto utilizzato per tutto l'800. In questo modo non sappiamo mai se la prospettiva del personaggio corrisponda o no a quella dello scrittore. Per questo Flaubert fu accusato di immoralità, perché a lui furono attribuite le idee di Emma.

TESTI PAGINA 69 "I SOGNI ROMANTICI DI EMMA" E PAGINA 81 "L'ALCOL INONDA PARIGI"

quarta-feira, 18 de setembro de 2013

Soren Kierkegaard


Vita

Francobollo in omaggio a Kierkegaard
I temi fondamentali della filosofia di Kierkegaard sono la singolarità dell'uomo e dell'essistenza e la categoria della libertà come possibilità. Questi temi si contrappongono all'idealismo romantico dell'epoca.


Kierkegaard è nato a Copenhagen nel 5 maggio 1813, e fu educato dal padre anziano in una religiosità rigida. Si iscrisse nell'Università di Copenhagen per studiare teologia, dove predominava un'ideologia hegeliana. Nel 1840, circa dieci anni dopo l'ingresso in Università si laurea con una dissertazione "Il concetto de ll'ironia" (pubblicato nell'anno dopo). Nel 1841-1842 va a Berlino dove ascolta le lezioni di Schelling che insegna la sua filosofia positiva, caratterizzata dal contrasto radicale tra realtà e ragione. Prima fu entusiasmato e poi deluso, e tornò a Copenhagen dove visse con una somma lasciategli dal padre e si occupò dei suoi scritti. Gli incidenti esteriori della sua vita sono scarsi, perché ebbe una vita tranquilla come Kant, e furono principalmente il suo fidanzamento con la scrittrice Regina Olsen, l'attacco di un giornale umoristico di cui si dolse, e la polemica contro l'ambiente teologico danese che occupò la fine della sua vita, principalmente contro il teologo hegeliano Martensen. 

Regina Olsen, l'unica donna che amò
e che rifiutò a causa della scheggia
nelle carni, una minaccia orrenda
che sentiva e non la sapeva
spiegare. 
Questi episodi hanno avuto un profonto effetto sulla sua vita, si pensa che anche sproporzionato con quello che è realmente accaduto, che hanno influenzato anche le sue opere. Infatti, lui scrive nel "Diario" che un grande terremoto si era abattuto sulla sua vita, e questo l'aveva fatto posizionarsi di modo diverso daventi al mondo. Lui faceva un accenno vago a una "colpa che sarebbe caduta su tutta la famiglia, un castigo di Dio" e nonostante i biografi tentassero scoprire cosa fosse, pare che essa fosse senza una precisa definizione anche agli occhi del proprio Kierkegaard. Parla poi nei diari anche di una "scheggia nelle carni" che è destinato a portare. Anche qui non c'è niente di preciso, che dimostra il carattere grave della cosa. Forse fu questa scheggia che lo impedì di condurre la vita, il suo fidanzamento che ruppe dopo qualche tempo di propria volontà, le relazioni con la famiglia. Anche qui non c'era una causa determinata, solo il senso di un oscura e paralizzante minaccia. Forse anche per questo non ha seguito la carriera di pastore e nessun'altra. Era uno scrittore, e diceva de avere un rapporto poetico cioè un distacco da ciò che scriveva. Tanto che ha pubblicato le sue opere sotto diversi pseudonimi. 

Le sue opere principali furono: Il concetto dell'Ironia (1841), Aut-Aut che comprendeva Il Diario di Un Seduttore con le storie di Don Giovanni (1843), Il concetto dell'Angoscia (1844), La malattia mortale (1849). Scrisse anche discorsi religiosi, e nel 1955, dal maggio a settembre pubblicò una rivista "Il momento" in cui esponeva le sue polemiche sul cristianesimo danese. 

Morì l'11 Novembre 1855. 

L'esistenza come possibilità

Una prima caratteristica dell'opera di Kierkegaard è l'aver cercato di ricondurre l'esistenza umana alla categoria di possibilità e di aver messo sotto la luce la negatività della possibilità. Già Kant aveva riconosciuto la possibilità reale e la trascendentale. Però su una luca positiva. Queste possibilità facevano riferimento a una apacità umana limitata ma che in questo limite trovavano validità e impegno di realizzazione. 

Kierkegaard risalta l'apetto negativo di ogni possibilità che costituisce l'esistenza umana. Infatti, la possibilitá oltre che possibilità di sí, può essere possibilità che no. Questo implica la non realizzazione di tutto che sarebbe possibile, e c'è la minaccia del nulla. (Una volta scelta una possibilità, tutte le altre che non sono state scelte non potranno mai essere raggiunte. È il non fare).  Kierkegaard vive sotto questa minaccia. Ogni aspetto della sua vita sembra un'infinità di alternative terribili. Lui incarna quello che descrive nel Concetto dell'Angoscia: il discepolo dell'angoscia, una persona che sente in sé tutte le possibilità annientratrici che ogni alternativa fornita dall'esistenza può avere. Per questo, Kierkegaard era reso alla fine paralizzato davanti a ogni alternativa. 

Lui stesso diceva di essere una cavia per l'esperienza dell'esistenza. Diceva di contenere in sé i due estremi degli opposti, di esse un nulla, di mantenere l'esistenza al punto zero: tra freddo e caldo, tra saggezza e stupidità, tra un qualcosa e un nulla, come un forse. Il punto zero è l'indecisione permanente, l'instabilità tra le due decisioni. Questo potrebbe essere la scheggia nelle carni di cui Kierkegaard parlava: 'limpossibilità di ridurre la propria vita a un compito preciso a una possibilità unica. Forse questa impossibilità di traduce per lui nello stare sull'indeciso e indefinito, e il centro del suo io sia il non avere un centro. 

Una seconda caratteristica è quella di chiarire le possibilità fondamentali presentate all'uomo, gli stadi della vita che sono le alternative dell'esistenza, tra le quali l'uomo normalmente deve scegliere ma lui non può. La sua attività fu di comtemplazione. Si credette poeta, e moltiplicò la sua personalità con pseudonimi per chiarire che non s'impregnava a scegliere tra queste alternative. 

Una terza caratteristica è il tema della fede. Nel cristianesimo vede un'ancora di salvezza. Oltre che identificarsi e insegnare la dottrina dell'esistenza che lui crede vera, la religione trova una maniera attraverso la fede di uscire dalla disperazione e dall'angoscia che costituiscono la struttura dell'esistenza stessa. 

La singolarità come categoria propria dell'esistenza umana

Contro l'idealismo hegeliano che dissolveva l'individuo singolo nella realtà universale, proclama l'istanza del singolo. La verità solo è una verità se lo è per me. Quindi, non è l'oggetto del pensiero che è la verità, ma il modo con cui l'uomo si appropria di essa, la fa sua e la vive. L'appropriazione della verità la verità. Alla riflessione oggettiva hegeliana Kierkegaard propone una soggettiva basata sul singolo e sul suo destino.

Hegel aveva fatto dell'uomo un genere animale, perché solo nel genere animale in genere è più importante che il singolo. Ma la caratteristica dell'umano è che il singolo è più importante del genere. Questo per Kierkegaard è l'insegnamento fondamentale del cristianesimo (per questo anche non si può credere in Dio e avere fede in collettività). 

Bisogna combattere con la concessione hegeliana e contro qualsiasi filosofia che usi la riflesione oggettiva. Il suo compito è quello di mettere l'individuo singolo con tutte le sue esigenze nella riflessione filosofica. Per questo voleva sulla sua tomba scritto "quel singolo" e per questo aveva combattuto tutta la vita contro il panetismo idealistico, cioè Dio è presente in tutto, e anche nell'uomo; tra Dio e l'uomo c'è uno spazio incolmabile, cioè tra il finito e l'infinito. C'è una diferenza abissale tra il modo di essere del singolo e quello dell'Assoluto. (per questo il cristianesimo è una contraddizione, Gesù visse come uomo m si diceva Dio, era singolo e assoluto allo stesso tempo; -> credere o non credere?)

Gli stadi dell'esistenza

Il primo libro di Kierkegaard s'intitola significativamente "Aut-Aut". È una raccolta di scritti in pseudonimi che dimostra due tipi di stadi dell'esistenza: la vita estetica (nella figura di Giovanni) e la vita etica, tra cui c'è un'abisso. Ogni stadio è una vita a sé la cui alternativa esclude automaticamente l'altra. 

a) Vita estetica

La vita estetica è una vita vissuta nell'attimo, è fuggevole e irrepetibile. L'esteta è colui che vive poeticamente, vive insieme d'immaginazione e di riflessione. Ha un'impulso per ricercare le cose interessanti della vita e trattare le cose vissute come opera dell'immaginazione poetica. Così crea per se un mondo luminoso che esclude tutto ciò che è banale, meschino e insignificante. Vive in uno stato di ebbrezza intelletuale continua. La vita estetica esclude la ripetizione e porta alla noia perché mentre non si trova un piacere, non s'incontra niente che si avvicini a questo. La vita estetica è rappresentata da Kierkegaard in Giovanni, che è come un Casanova, che cerca piacere non in una ricerca sfrenata, ma nella limitatezza e nell'intensità. Cioè, il suo piacere è un piacere immediato, profondo, intenso, ma effimero e superficiale. 

La vita stetica ha la sua miseria nella noia. Kierkegaard sostiene anche che chiunque viva la vita stetica è disperato, lo sappia o no. La disperazione è l'ultimo sbocco della vita stetica, e se l'abbraci con tutta la volontà è anche il modo per rompere con la pura estetica e passare così alla vita etica. Perché disperarsi è già una scelta, si può dubitare senza scegliere di dubitare, ma non si può disperare senza sceglierlo. Disperandosi si sceglie di nuovo e sceglie se stesso.

b) La vita etica

La vita etica nasce con questa scelta. Implica una stabilità e continuitá che non sono presenti dell'estetica perché essa è caratterizzata dalla ricerca della varietà. La vita etica è il dominio della riaffermazione deu sé e della libertà per la quale l'uomo si afferma da sé. L'elemento stetico è quello per cui l'uomo è quel che è, mentre l'etico è quelo per cui l'uomo diviene quel che diviene. 

Nella vita etica l'uomo si adegua ad una forma, all'universalità e rinunca all'eccezione, all'essere l'eccezione. 

Siccome la vita etica è caratterizzata dal seduttore, la vita etica lo è dal marito. Il matrimonio è tipico della vita etica ed è un compito che può essere proprio di tutti. Mentre nella vita estetica una coppia di persone eccezionali può essere felice a causa dell'eccezionalità, nella vita etica, col matrimonio ogni coppia può diventare felice. 

La persona etica vive del suo lavoro. Il lavoro è la vocazione, quindi la persona lavora con piacere. E lavorando conosce altre persone, la collettività, e adempiendo il suo compito, e allora adempie a tutto che si può desiderare. 

terça-feira, 17 de setembro de 2013

Tema: Raça e Cultura

I.

Franz Boas afirma que os diversos continentes são habitados por diferentes povos, e cada um tem sua cultura, seus costumes e sua língua que são diferentes, além do aspecto físico. 

Cada tipo humano parece ter suas próprias invenções, costumes e crenças, e acredita-se que estes estejam diretamente relacionados. Nesse sentido a palavra "primitivo" tem dois sentidos diferentes: um se refere à raça e o outro à cultura, que também é comum pensar que estejam relacionados, e que a raça, assim, determine a vida cultural.

Como a forma corporal tem também um valor estético, e a Europa ficou isolada racialmente durante muito tempo, os tipos "estranhos" são considerados inferiores por uma normal aversão ao estrangeiro, baseada somente em reações emocionais. Como estes estrangeiros, por sua vez, não participam ativamente da vida do continente europeu, e a vida cultural de seus países de origem não é tão "vasta" e "rica" como a da Europa, se pensa que tipo estranho e inteligência também estejam estreitamente relacionados.

A "superioridade" das invenções, dos pensamentos e das artes europeias dão a impressão de que são um povo muito mais evoluído que os outros. Relacionado a questão do tipo estranho e do tipo europeu chega-se a conclusão de que a raça branca seria um tipo superior, e então que aptidão esteja relacionada a uma capacidade racial inata. E se o desenvolvimento da raça branca é maior, se supõe que seu cérebro tenha uma organização mais sutil (se a aptidão é mais elevada, o tipo físico e mental também o seria).

Nota-se que quanto mais uma raça difere da europeia, mais inferior é considerada. 

As condições sociais também são vistas da mesma forma: a liderdade individual, as artes e o código ético recebem um valor tão alto que parecem indicar a superioridade europeia. (O juízo sobre o status mental se baseia na diferença do status social em relação àquele europeu; quanto mais diferente for, pior será o juízo).

Devemos indagar até que ponto se justifica a suposição de que as conquistas de um povo se devem a uma aptidão inata, e até que ponto há razão em supor que o tipo europeu - ou o tipo europeu norte-ocidental - é superior aos outros. 

Esse tipo de crença, parte do pressuposto de que se todas as raças tiveram igual oportunidade de desenvolvimento, porque somente quela branca européia conseguiu evoluir tanto?

Em um passado remoto, surgiram em determinadas áreas do planeta as primeiras civilizações. Com o passar do tempo, civilizações novas substituíam as anteriores, conquistando geralmente, aquelas mais civilizadas e aprendendo os modos de vida avançados para aplicar em suas vidas. Assim, os locais de desenvolvimento das civilizações não mudaram muito e o progressos foi lento. Os antepassados das raças que hoje são consideradas as mais altamente civilizadas não eram superiores, de nenhuma forma, as raças que hoje são consideradas menos civilizadas pois ainda não entraram em contato direto com a civilização moderna (ou seja, supostamente em um mesmo nível de civilização pré-moderno, o que quer dizer, que não necessariamente a evolução dos antepassados seja o fator que levou as civilizações mais bem consideradas a ser tão bem sucedidas, acabando assim com a hipótese de uma aptidão inata pelo momento).

Deve-se considerar que nenhum dessas civilizações foi produto da genialidade de um só povo. Há provas de que idéias se difundiam todas as vezes que havia contato entre os povos, e que diferenças raciais e linguísticas não impediam essa troca, assim como nem mesmo o conflito e a distância.

Porém, deve-se também ter presente que outras raças, como aquelas da Hispanoamérica, conseguiram méritos altamente qualificados e quase totalmente comparáveis  e elevados aos do povo europeu. A úica diferença efetiva entre as duas civilizações foi o tempo em que desenvolveram tais conquistas. Porém, a maior rapidez das civilizações do Velho Mundo não apontam para uma superiodade, dado que este tipo de ocorrência é devido ao acaso, principalmente se considerarmos que o tempo de evolução do ser humano é praticamente muito pequeno se comparado a idade do planeta. Além disso, uma outra explicação para o desenvolvimento de aptidões em épocas posteriores é a própria história e os modos de vida de uma população. Esse atraso só poderia ser significativo se fosse verificado em uma raça ao longo da história em várias oportunidades, enquanto em outras fosse verificado sempre, da mesma forma, a maior repidez de evolução.

Os povos da Europa assimilaram mais facilmente a cultura dos invasores, do que hoje o fazem as civilizações conquistadas. Edtas tendem a sucumbir ao invés de se fortalecer. Isto se deve ao fato de que as diferenças entre os invasores e os europeus eram menores até mesmo nos traços físicos, e o tempo de isolamento foi inferior ao verificado em algumas civilizações de hoje. Em nossa época também, a questão do tipo físico é mais complicada, pois enquanto antigamente o estrangeiro era incorporado na cultura e sua descendência era considerada nativa, nos dias modernos isso não acontece, pois os estrangeiros vivem de forma mais isolada, e são segregados pela sociedade em que vivem. Um grande exemplo são os negros americanos, que não estão no mesmo patamar da população branca estadounidense mesmo com todas as garantias que por lei lhe são dadas. 

II. 

III.

IV.

domingo, 15 de setembro de 2013

Arthur Schopenhauer

La vita

Arthur Schopenhauer è nato nel 1788 a Danzica, nella Prussia, oggi attuale Polonia. (È morto nel 1860).

Figlio di un ricco commerciante, Henry Floris Schopenhauer, che era uno spirito comopolita e voleva che il figlio ne seguisse la carriera. La mare era Johanna Schopenhauer, scrittrice e traduttrice. La sorella, secondogenita, Adele era brutta e decise di seguire la carriera della madre.

Johanna non passava molto tempo coi figli, e Arthur sentiva la sua mancanza. Lui non era vicino al padre perché esso aveva delle ispirazioni di carriera contrarie alle sue. Johanna, inoltre, non corrispondeva all'amore apassionato del marito 20 anni più vecchio di lei, era fredda e lontana. Henry, ad un punto, si uccise, dopo anni di mancato affetto dalla moglie, ed essa, alla sua volta fondò poco tempo dopo il suo circolo letterario, a cui invitò gli intellettuali dell'epoca  a cui partecipava Goethe. Tra l'altro, anche Adele ne faceva parte, perché a livello inconscio sapeva di essere inferiore al fratello.

Schopenhauer, anche con le difficoltà vissute a casa non impazzì, e decise di andare all'università a Berlino. Divenne per molto tempo il maggiore esponente di filosofia orientale in Europa. Siccome studiava il budismo e l'induismo era chiamato atma ("anima").

Disprezzava Hegel, che faceva lezione nella stessa università, al punto di fissare le ore per le sue lezioni nella stessa ora di quelle del "nemico". Disprezzava anche l'insegnamento, in una ripresa di Socrate "conosci te stesso", famosa frasi incontrata sul tempio di Apollo a Delfi. 

Nel 1830 scappa da Berlino e va a Francoforte sul Reno dove studia il magnetismo, una delle prime forme di ipnosi usate nell'800, in cui si utilizzavano magneti per fare la persona entrare in catarsi, in un transi influenzato da quanto le veniva detto. 

La filosofia

Il mondo della rappresentazione come Velo di Maya

Il punto di partenza della filosofia di Schopenhauer è la distinzione kantiana tra fenomeno e cosa in sé (noumeno). Però la distinzione ha poco in comune con quella di Kant, per il quale il fenomeno è l'unica realtà accessibile e raggiungibile dalle mente umana, e il noumeno è un concetto limite. Per Schopenhauer, il fenomeno è illusione, sogno, inganno, un concetto che s'identifica con un'antica sapienza indiana, il "Velo di Maya". Il noumeno è la realtà dietro la realtà, quello che c'è dietro il fenomeno, dietro il velo.

Maya significa inganno, è un velo che avvolge gli occhi degli uomini e fa vedere un mondo che non si può dire se sia o no vero. È come il riflesso del sole sulla sabbia, che da lontano si confonde con l'acqua.

Questa atmosfera orientalistico-metafisica della filosofia di Schppenhauer è diversa da quella gnoseologico-scientifica ("dialogo sulla conoscenza", cioè, un approccio scientifico attraverso il criticismo della conoscenza, infatti Kant cerca di scoprire il limite, quello che è alla basi dell'esistenza, del logos, dell gnosi) di Kant. Per Kant il fenomeno è l'oggetto della rappresentazione e esiste solo fuori della coscienza, ma per Schopenhauer il fenomeno è una rappresentazione che esiste solo all'interno della coscienza, tant'è che per lui "il mondo è la mia rappresentazione".

La rappresentazione ha due aspetti essenziali e inseparabili: il soggetto rappresentante e l'oggetto rappresentato. Uno non può esistere senza l'altro e i due esistono sono all'interno della rappresentazione. Quindi, non ci può essere soggetto senza oggetto e vice-versa.

Per Schopenhauer la nostra mente è costituita da forme a priori, la cui scoperta lui attribuisce interamente a Kant. Però, per Schopenhauer esistono solo 3 forme a priori: spazio, tempo e causalità. Quest'ultima, la causalità è l'unica categoria che esiste, nonostante Kant ne avesse elencato 12, perché tutto è riconducibile ad essa. La realtà dell'oggetto si compie nella sua azione causale su altri oggetti. Infatti, una cosa solo esiste se compie un'azione causale su altre cose. Allora dire materia è dire azione causale, come testimoniano le parole tedesche per "realtà" che deriva appunto da "agire".

Siccome Schopenhauer paragone le forme a priori a dei vetri sfacettati attraverso cui la realtà si deforma,  la rappresentazione è una rappresentazione "fastamagorica", quindi lui conclude che la vita è sogno. Per illustrare questo, lui cerca in altri filosofi, come Platone, degli esempi. Infatti, Platone diceva che gli uomini "non vivono che in un sogno". Inoltre, si può anche fare un legame con Il Mito della Caverna.

Lì gli uomini vivevano incatenati e forzati a guardare una parete di pietra in cui venivano fatte delle ombre, da dietro le loro teste, con gente che portava oggetti attorno al fuoco. E rimanevano così per tutta la vita. Quella era la realtà per loro. Se per caso uno riuscisse a liberarsi, sarebbe uscito dalla caverna e guardato al sole, visto il mondo e scoperto la verità, avrebbe conosciuto la "vera" realtà e sarebbe tornato per dire agli altri e liberarli, ma sarebbe ucciso. 

Ma al di là del sogno e del fenomeno, esiste una realtà vera, il noumeno, sulla quale l'uomo non può fare altro che interrogarsi, perché è un animale metafisico. Infatti, di tutti gli esseri viventi, l'uomo è l'unico capace di stupirsi della propria esistenza, e questo avviene in accordo con la sua intelligenza.

Più in basso si è nella scala intellettuale, meno un uomo è capace di stupirsi della propria esistenza. Ma la "meraviglia filosofica", come la chiama Schopenhauer, richiede una intelligenza superiore, ma non solo, richiede anhe la consapevolezza della morte e del dolore e miseria della vita, che sono quelle cose che spingono la riflessione filosofica. Forse, se la vita non avesse una fine e non fosse dolorosa, nessuno si avrebbe mai domandato perché il mondo esista e sia così.

La volontà di vivere

Per Schopenhauer la sua filosofia è quella integrazione necessaria alla di Kant, che non ha fornito mezzi per arrivare al noumeno. Ma se noi viviamo nella rappresentazione, come facciamo a squarciare il velo di maya? Come possiamo conoscere il noumeno, la cosa in sé?

Se fossimo solo conoscenza e rappresentazione, o una testa alata di angelo senza corpo, non sarebe possibile uscire dal fenomeno, cioè dalla rappresentazione fisica di noi e delle cose. Ma come siamo anche corpo, non siamo limitati a guardarci dal di fuori, ma possiamo guardarci anche all'interno. Infatti, ripiegare su su noi stessi ci fa accorgere della cosa in sé del nostro io, del nostro essere, che è la brama o la volontà di vivere. Questa è un impulso enorme che ci fa esistere ed agire.

Allora, più che inteletto e conoscenza, siamo volontà di vivere. Il nostro  è una rappresentazione esteriore delle nostre brame interiori. Un'esempio è l'apparato dierente che è una rappresentazione esteriore della volontà di nutrirsi. Infatti tutto il mondo fenomenico è una maniera di manifestarsi della volontà di vivere nella rappresentazione spazio-temporale. Da qui il titolo del capolavoro di Schopenhauer: Il mondo come volontà e rappresentazione.

Per esemplificare, Schopenhauer ricorre a una serie di immagini. La relazione tra volontà e intelletto, volontà e corpo, volontà e fenomeno in generale è come quello tra un padrone e un servo, l'uomo e lo strumento, il capo e il cuore.

Infine, la volontà di vivere non è soltanto la radice noumenica dell'uomo, ma è la cosa in sé di tutto l'universo, l'arché, il principio del principio. È il nocciolo del singolo e del Tutto. È presente in ogni essere, in diverse forme e gradi di consapevolezza; dalla materia organica, a livello inconsapevole, all'uomo nella massima consapevolezza.

Caratteri e manifestazioni della volontà di vivere

Siccome è oltre il fenomeno, la Volontà primordiale ha delle caratteristiche opposte a quelle del mondo della rappresentazione e,  per questo, esce dalle forme proprie di questo: spazio, tempo e causalità. Prima di tutto, la Volontà è inconscia, perché intelletto e consapevolezza ne sono solo manifestazioni secondarie. Inoltre, se fosse conscia non sarebbe il principio, ma una sua rappresentazione. La Volontà di Schopenhauer tra l'altro non è quella cosciente, perché s'identifica anche col concetto di energia e impulso, ed è allora spiegabile perché Schopenhauer la attribuisca anche alla materia inorganica e alle piante.

La volontà è anche unica, perché esistendo fuori da spazio e tempo, che possono dividere o moltiplicare gli enti, non è più là di quanto sia qui, non è più oggi che fu ieri e che sarà domani. È dappertutto. Ed essendo oltre il tempo, è anche eterna e indestruttibile, ossia, un Principio senza inizio nè fine. Per questo Schopenhauer dice che alla Volontà è garantita la vita.

Essendo fuori anche della categoria di causa è incausata e senza scopo. È un'energia libera e cieca, senza un perché e senza scopo. Noi possiamo cercare le ragioni della volontà fenomenica, ma non della volontà in sé: si può chiedere a qualcuno perché voglia questo o quello, ma non perché voglia in generale. L'unica risposta possibile sarebbe "voglio perché voglio" cioè "voglio perché ho una volontà irresistibile che mi spinge a volere". La Volontà, infatti, non ha una mèta oltre sé stessa. La vita vuole la vita, la volontà vuole la volontà; qualsiasi scopo cade entro il vivere e il volere stessi.

Miliardi di esseri non vivono che per vivere, d'accordo con Schopenhauer. Questa è l'unica verità sul mondo. Anche se essi hanno tentato di creare un Dio per dare un fine alla loro vita. Però, non può esistere un Dio nell'universo doloroso di Schopenhauer. L'unico Assoluto è la Volontà. Infatti ad essa sono concesse le caratteristiche normalmente attribuite a un Dio, e con cui i romantici solevano caratterizzare l'infinito.

La vita è dolore

Affermare che l'essere è la manifestazione di una volontà infinita, equivale a dire che la vita è dolore per essenza. Volere significa desiderare, e desiderare vuol dire essere in uno stato di tensione per qualcosa che non si ha ma si vorrebbe avere.  Il desiderio è allora mancanza, vuoto, sofferenza. E siccome nell'uomo la volontà è più cosciente, esso è il più bisognoso degli esseri, che non troverà mai appagamento durevole. Ogni volere viene da un bisogno, da una mancanza. A questa dà fine l'appagamento. Ma per un desiderio appagato ne rimangono vari altri. La stessa soddisfazione finale è solo apparente: il desiderio appagato dà luogo ad un nuovo, e l'appagamento non corrisponde in intensità al desiderio che va all'infinito. Quindi, nessun oggetto del volere avrá mai appagamento durevole, e sarà solo come un'elemosina che prolunga la vita del mendico per continuare il suo tormento.

Oltre tutto questo, il godimento (fisico) e la gioia (psichica) corrispondono a una cessazione temporanea di uno stato preesistente di tensione, come lo dicono anche Verri e Leopardi. Schopenhauer dice ancora che per esserci piacere, ci deve per forza essere dolore. La stessa cosa non vale per il dolore, non i può dire che esso sia una cessazione di piacere, perché si può provar una catena di dolore senza nessuna traccia di piacere, mentre ogni piacere nasce da un dolore. Mentre il dolore che s'identifica con il desiderio è qualcosa di permanente, il piacere è solo una funzione derivata da esso, e vive a spese di esso. Tant'è che per sostituirsi al dolore deve annulare sé stesso. Appena viene meno il dolore, il piacere sparisce.

Ogni felicità è allora di natura negativa, e non positiva. Questo viene dimostrato dall'arte, in particolare dalla poesia epica e drammatica. L'eroe viene condotto in una serie di eventi che lo portano alla ricerca della felicità, di una mèta, e alla fine, quando ci arriva, capisce di non trovarsi meglio di prima.

Accanto al dolore, una realtà durevole, e al piacere, qualcosa di fugace, Schoppenhauer mette un'altra situazione esistenziale: la noia. Essa subentra quando viene meno il dolore. La vita umana è come un pendolo che oscilla fra dolore e noia (che sono reali perché in disaccellerazione) e il piacere (illusione perché in movimento) che è un'intervallo fugace.

Ma se il dolore è la legge profonda della vita quello que distingue i casi è la forma attraverso la quale si presenta: varia d'accordo con l'età il sesso, le circostanze e si presenta come odio, invidia, gelosia, infermità, ecc. E quando non ha più modo di manifestarsi: ecco la noia, il tedio.

Poiché la volontà di vivere che pervade tutti gli essere è un vero e proprio desiderio inappagato cosmico, il dolore non riguarda solo l'uomo, ma tutto. Tutto soffre: dal fiore per la mancanza d'acqua, al bimbo che nasce e al vecchio que muore. Ma l'uomo soffre di più perché ha maggiore consapevolezza e così è destinato a sentire di più. Così come il genio soffrirà di più degli uomini comuni.

In questo modo, Schopenhauer dà vita a una delle più forti forme di pessimismo cosmico nella storia del pensiero: il male non è nel mondo, ma anche nel Principio da cui esso deriva. Espressione di questo dolore non è solo la frustazione che scaturisce dalla volontà ma anche la lotta crudele delle cose. Dietro alle meraviglie del creato, ogni essere è angosciato e tormentato, e esiste solo a patto di devorare l'altro. La propria autoconservazione è una lotta che comporta la morte degli altri.

L'esempio di questa terribile lotta è dato dalla formica gigante d'Australia, che se tagliata in due parti fornisce un combattimento tra coda e capo, che può durare fino a mezz'ora o fino a quando le altre formiche non le trascinino via. Così l'individuo è solo uno strumento per la specie, fuori della quale non ha valore. L'unico fine della natura sembra quello di perpetuare la vita, e così anche il dolore.

Il fatto che per la natura interessi solo la conservazione della specie finisce per trovare una manifestazione nell'amore, cosa che Schopenhauer considera basilare nella vita umana, e allora è importante che di questo si occupi anche la filosofia. Per lui l'amore è qualcosa che si impadronisce della mente della popolazione più giovane, e penetra in ogni parte; scioglie vincoli stretti, sacrifica la vita, la richezza, la salute, priva di coscienza l'onesto e rende traditore il fedele.

Ma se l'amore è così forte è perché dietro il suo incanto c'è il freddo Genio della specie che mira alla conservazione della vita. Il fine dell'amore è per la Natura l'accopiamento. Quindi, se dietro all'innamoramento c'è la consumazione di questo amore, è perché l'individuo è lo zimbello, lo strumento della Natura, laddove crede di realizzare la propria volontà e personalità.

Esempio dell'essenza biologica nell'amore è il caso della mantide femmina che dopo l'accopiamento divora il machio, o la constatazione che la donna dopo aver figli perde bellezza ed attrattive.

E, se, allora, l'amore è un'instumento per continuare la specie, non esiste amore senza sessualità.

Per tutte queste ragioni, l'amore è inconsapevolmente visto come peccaro e vergogna, perché commette il maggiore dei delitti: perpetua altre creature destinate a soffrire. Se l'amore allora non è altro che due infelicità che s'incontrano, e che preparano una terza infelicità, l'unico amore di cui si può tessere l'elogio è quello disinteressato della pietà.

Le vie di liberazione del dolore

Nonostante sembri che Schopenhauer abbia creato una filosofia del suicido universale, questo non è vero. Il suicidio non è una negazione della vita, ma la sua affermazione, perché risalta la sua importanza e la sua sofferenza.

Ma allora, come si esce da questo ciclo vizioso? Attraverso delle vie di liberazione del dolore.
Per uscire dal dolore, si deve liberare dalla Volontà di Vivere.

È possibile farlo in 3 modi: attraverso l'arte, l'etica e l'ascesi mistica. L'arte suprema per Schopenhauer è la musica; quando si suona si vive l'istante, non si hanno aspettative, non si pensa, non hai memoria. È temporaneo. L'Etica significa compatire, letteralmente "soffrire insieme", essere in contatto con una persona a punto di capirla a un livello profondo, "empatia". Compatire per conoscere se stesse (Socrate). Quanto all'ascesi mistica, la si può raggiungere in 2 modi: attraverso la castità perfetta, o alla rinuncia ai piaceri. Quello che si ha alla fine è il raggiungimento del Nirvana, l'esperienza del nulla.

Non resta altro che il nulla. Ma non un buio, un'assenza totale, negativa, bensì un'assenza totale del fenomeno. Si esce da questa griglia, dalla relazione spazio-tempo-causalità che è tra l'altro uno stato d'essere, e si va a un terzo pianeta. Nell'annullamento del fenomeno si annulla anche il noumeno